Voglio leggervi alcune frasi scritte da Franco Fortini nel 1989, in un articolo che si potrà rileggere per intero sul prossimo numero della rivista «Nonviolenza», rivista che alla questione palestinese dedica un’attenzione costante. Sono frasi dirette agli ebrei italiani da una voce che si esprime dolorosamente come appartenente al mondo ebraico:

“Ogni giorno siamo informati della repressione israeliana contro la popolazione palestinese. E ogni giorno più distratti dal suo significato, come vuole chi la guida. Cresce ogni giorno un assedio che insieme alle vite, alla cultura, le abitazioni, le piantagioni e la memoria di quel popolo – e nel medesimo tempo – distrugge o deforma l’onore di Israele. In uno spazio che è quello di una regione italiana, alle centinaia di uccisi, migliaia di feriti, decine di migliaia di imprigionati – e al quotidiano sfruttamento della forza-lavoro palestinese, settanta o centomila uomini – corrispondono decine di migliaia di giovani militari e coloni israeliani che per tutta la loro vita, notte dopo giorno, con mogli, figli e amici, dovranno rimuovere quanto hanno fatto o lasciato fare. Anzi saranno indotti a giustificarlo.”

“Quell’assedio può vincere. Quando dalle mani dei palestinesi le pietre cadessero e – come auspicano i “falchi” di Israele – fra provocazione e disperazione, i palestinesi avversari della politica di distensione dell’Olp, prendessero le armi, allora la strapotenza militare israeliana si dispiegherebbe fra gli applausi di una parte dell’opinione internazionale e il silenzio impotente di odio di un’altra parte, tanto più grande.”

Parole profetiche: è quello che è già successo. Che sta succedendo ora al massimo grado. Lo scrittore invitava poi gli ebrei della diaspora a distanziarsi da quella politica, concludendo così:

 “Ogni parola che toglie una cartuccia dai mitra dei soldati dello Tsahal, un’altra ne toglie anche a quelli, ora celati, dei palestinesi.”

 

Quei mitra non sono più celati e il disastro è sotto i nostri occhi. Eravamo nel 1989. Faccio un salto di vent’anni. Nel 2009 lo scrittore uruguaiano Edoardo Galeano si faceva queste domande: 

“Israele è il paese che non adempie mai alle raccomandazioni e nemmeno alle risoluzioni delle Nazioni unite, che non si adegua mai alle sentenze dei tribunali internazionali, che si fa beffe delle leggi internazionali. Chi gli ha regalato il diritto di negare tutti i diritti? Da dove viene l’impunità con cui Israele sta eseguendo la mattanza di Gaza? Il governo spagnolo non avrebbe potuto bombardare impunemente il Paese Basco per sconfiggere l’Eta, né il governo britannico avrebbe potuto radere al suolo l’Irlanda per liquidare l’Ira. Forse la tragedia dell’Olocausto comprende una polizza di impunità eterna? O quella luce verde proviene dalla potenza più potente, che ha in Israele il più incondizionato dei suoi vassalli?”

Le frasi che ho letto illustrano con lucidità le premesse di una situazione che sembra ormai fuori controllo, sconvolta da una violenza cieca, irresponsabile. Non voglio chiudere questo intervento con degli slogan, ma con un appello alla nonviolenza. La violenza non fa che generare altra violenza. E dobbiamo aborrire e condannare ogni violenza, pur comprendendone le cause:

  • quella efferata messa in campo il 7 ottobre da Hamas;
  • quella terrificante dell’esercito israeliano, che sta facendo di Gaza un cumulo di macerie e cadaveri;
  • quella quotidiana e spudorata dei coloni, ormai senza freni e apertamente sostenuta dal governo israeliano;
  • quella che colpisce impietosamente chi aspetta un autobus a Gerusalemme;
  • quella subita dalle migliaia di persone incarcerate abusivamente in condizioni inaccettabili;
  • quella di chi strappa spietatamente gli ulivi in territori su cui non ha diritti.

L’ulivo richiama la pace, e la pace – si dice – bisogna farla in due. Ma a quel tavolo dovranno sedersi in molti di più, e in primo luogo il grande protettore americano di Israele, complice benedicente della sua decennale politica di sopraffazione. Se il ministro degli esteri svizzero fosse un altro — ma anche il Consiglio federale – si potrebbe anche sperare, forse, in un ruolo positivo della Confederazione.

La situazione al momento è troppo buia, sconfortante, insopportabile. C’è spazio solo per la recriminazione e la disperazione. Posso solo chiudere con un augurio, e lo faccio in ebraico: shalom.

 

LA NOSTRA PRESA DI POSIZIONE