In un recente contributo apparso sul Corriere del Ticino (“Quella precauzione antiscientifica”), l’insigne economista dell’USI professor Giovanni Barone Adesi, teorico dei prodotti derivati (quelli, per intenderci, all’origine della grande depressione del 2008) e della finanza speculativa, fornisce una sua personale interpretazione del principio di precauzione, cui imputa per intero l’avversione dei cittadini europei agli accordi commerciali transatlantici di libero scambio. Un ragionamento fallace, alla base, e una partigiana semplificazione, l’altra, che se non sono una prova di deliberato inganno, ne sono almeno dei solidi indizi.

Le ragioni che rendono tali accordi economici e commerciali, voluti e scritti delle grandi multinazionali, inaccettabili, sono molteplici. Innanzitutto, come dimostra il CETA tra Canada e UE, essi escludono i parlamenti nazionali e il processo democratico. Infatti, i tentativi di introdurre la trinità neoliberista – completa privatizzazione, deregolamentazione e tagli radicali alla spesa sociale – in maniera pacifica con un dibattito pubblico, sono sempre falliti. L’applicazione di questa teoria economica, un’ideologia estremista che ha prodotto i peggiori regimi totalitari nei paesi del Sudamerica e ha impedito a quelli africani di emanciparsi, è una minaccia non solo agli standard agroalimentari, ma anche alla lotta ai cambiamenti climatici, alla possibilità per gli Stati di proteggersi da crisi che dovessero coinvolgere istituti di credito di rilevanza sistemica, o alla futura possibilità di riportare in mano pubblica servizi già privatizzati. Le norme proposte si prefiggono di impedire ai governi nazionali di legiferare nell’interesse pubblico, tramite un nuovo sistema legale accessibile alle sole multinazionali e agli investitori stranieri che tolga qualsiasi limite alle importazioni di beni e di servizi, creando le premesse per una crescente dipendenza dal mercato globale e dalle crisi del debito, dei prezzi delle materie prime e della valuta. Qualsiasi tipo di standardizzazione sarebbe ridimensionata, poiché di ostacolo al commercio, incluse quelle sulla sicurezza ambientale e alimentare, e sui diritti dei lavoratori. Fra queste anche il principio di precauzione.

Il principio di precauzione, rifacendoci allo scritto di Barone Adesi, afferma che “un prodotto non possa essere messo in commercio se non è provato che non faccia male”, ma dato che questo non è possibile, se non entro i margini d’incertezza statistica, “il metodo scientifico conduce sempre a risultati che impongono di non mettere in commercio alcunché”. Non solo sarebbe quindi antiscientifico (sic), ma impedirebbe – soprattutto – lo sviluppo economico. Il metodo in realtà non ha di queste pretese (o controindicazioni), vuole solo ridurre i rischi sull’ambiente e sulla salute di prodotti e tecnologie di cui non si sa abbastanza, impedendone una diffusione affrettata quando le prove scientifiche sono insufficienti, non permettono di prendere una decisione definitiva o implicano incertezze. Confondendo scienza ed etica, il nostro interlocutore preferirebbe invece mettere deliberatamente a rischio la salute delle persone, e semmai pagare indennizzi ai superstiti per i danni e le morti eventualmente generate. Questo spregio per la vita umana e il poco rispetto per la dignità delle persone di fronte all’arricchimento di una élite globalista è una costante del conflitto oggi in corso in Europa e nel mondo, con spregio tacciato come bieco populismo dai medesimi ideologi del libero mercato. Speriamo che le vanesie dichiarazioni del professore siano solo da imputare al caldo… o forse meglio di no, considerato quello che ci aspetta sul fronte del cambiamento climatico!